Non lo so come accadde, ma all’improvviso, la vita di Mario Pignagnoli cambiò. Probabilmente in meglio, visto che fino da allora non era stata così entusiasmante, così densa di cose da raccontare, così piena di episodi da renderlo una di quelle persone affascinanti che rubano l’attenzione al compleanno di qualcuno. Fino ad allora gli unici momenti in cui nella sua vita era consapevole che la gente si stesse interessando a lui, era quando pazientemente cercava di spiegare che di cognome faceva Pignagnoli, con l’accento sulla a e non Pignagnòli con l’accento sulla o , come la maggior parte della gente continuava a chiamarlo.
Fino a quella mattina di aprile, leggermente nebbiosa, quasi una Londra di altri tempi, in cui il fatto avvenne, Mario Pignagnoli aveva condotto una vita semplice: bambino apparentemente felice, studente di buona levatura, nessun grillo per il capo, Mario era cresciuto rapportandosi poco con gli altri, fino a coltivare una tendenza alla solitudine che a lungo andare aveva preso il sopravvento.
Una solitudine che si riverberava non solo nei rapporti scarni ed al massimo obbligati con i colleghi dell’ufficio , ma che addirittura si esternava nell’arredamento di casa, quanto mai scarno e ridotto all’osso: un letto, un tavolino, una sedia. In cucina un fornellino a gas, una sola pentola, un piatto ed una forchetta. Ed in bagno il water ed un rubinetto.
Cose e persone erano per lui orpelli nella vita che lo circondava: il senso era sentire il tempo che passava, lento, veloce , deciso, come accadeva.
Ma un giorno , quel giorno di aprile, il tempo si fermò.
All’edicola dove tutte le mattine comperava il giornale, rigorosamente la quarta copia in ordine di disposizione sul banco, un uomo si mise ad osservarlo con insistenza. E lo seguì nel momento in cui lui prese la direzione dell’ufficio.
Non se ne accorse subito, solo dopo qualche isolato. Cominciò a chiedersi ansiosamente chi fosse quell’uomo e perché lo seguisse, accelerò il passo, provò a nascondersi dietro ad una macchina, entrò in un bar e ordinò un caffè (non ne beveva da anni) lo bevve ed uscì. Ma l’uomo continuava a seguirlo.
Allora Mario Pignagnoli si fermò si voltò verso quest’uomo e lo fissò: poi con la voce rotta dall’emozione gli chiese chi fosse e che cosa volesse da lui.
L’uomo per un po’non disse niente ,poi lo guardò e gli consegno un libro.
– Qui sopra c’è la mia mail, quando ha finito mi piacerebbe che lei mi scrivesse. Si prenda pure il suo tempo, ma entro la fine dell’anno mi scriva altrimenti sarà stato inutile.
L’uomo sparì e per un attimo Mario rimase lì fermo, stupito, in parte solamente desideroso di conoscere il nome dell’uomo, perché così, conoscendo il suo nome, avrebbe potuto presentarsi e dirgli che si chiamava Mario Pignagnoli, con l’accento sulla a e magari l’uomo gli avrebbe prestato ancora attenzione.
Andò al lavoro e poi tornò a casa , poggiò il libro sul tavolino e si cucinò l’ultimo uovo rimasto, Poi la curiosità vinse su di lui ed aprì il libro. Era un libro senza sovracopertina per cui solo aprendolo scoprì qual ‘era il titolo. Il libro si intitolava “ I ricordi degli altri” , un titolo come un altro, indicatore di un contenuto particolare oppure normale, insomma un titolo.
Solo che il libro era vuoto, o meglio le pagine erano vuote. Pagine bianche, nessuna riga scritta, nessun frego di penna: il candore più accecante. Meno che a pagina 27, l’unica numerata, dove in piccolo a penna vi era scritto: “E tu? Quale ricordo hai ?” .
Nient’altro, in tutto il libro,né sulla copertina né dietro, da nessuna parte. Solo in fondo, la mail.
Lo buttò in un angolo , si mise il suo unico pigiama e si addormentò.
E cominciò tutto.
“La gente che prima non lo guardava e lo evitava
cominciò a fermarlo per la strada con dei pretesti, solo per attaccare bottone”
La gente che prima non lo guardava e lo evitava cominciò a fermarlo per la strada con dei pretesti, solo per attaccare bottone, e ricordargli ad esempio di quanto si erano divertiti quella volta a vedere insieme quel film di vampiri al cinema all’angolo. Oppure di quando, insieme, avevano cercato di smettere di fumare, inutilmente, perché poi il suo interlocutore aveva ripreso.
E da quel giorno lui venne invaso dai ricordi, i ricordi degli altri, perché lui non ne aveva o perlomeno non gli sembrava di averne.
Una bella donna sui quaranta gli rammentò di quella volta che lui l’aveva abbordata , in un bar di Caracas, raccontandole di essere un killer. E di come quella notte passata insieme era stata la più travolgente della sua vita, e di come ora rivederlo era stata una pugnalata profonda al cuore. Un bambino lo ringraziò per avergli fatto tirare un calcio di rigore durante la finale del campionato allievi, un pittore lo ringraziò per avergli comprato il suo primo quadro, una ragazza gli tirò uno schiaffo dicendogli che lui sapeva perché.
E passò l’estate e l’autunno, in un vortice di persone che lo fermavano, piangendo, ridendo, commuovendosi per lui o insultandolo da lontano, invitandolo a cena per la settimana successiva (come ai vecchi tempi) o restituendogli delle lettere d’amore che lui non ricordava di aver scritto.
All’inizio, il primo periodo aveva paura che non sarebbe riuscito ad ascoltare tutte quelle cose , tutte quelle voci differenti, quel brulicare di parole evocanti giorni che non ricordava di aver vissuto; ma con l’andare del tempo ci aveva fatto l’abitudine .
Usciva di casa contento e quando la gente lo fermava si ricordava quello che avevano fatto insieme. Addirittura, a volte, finiva con il suggerire particolari che agli altri erano sfuggiti: cose minime come il fruscio del vento o il rumore della pioggia fine, un onda di mare lunga che si infrange sulla sabbia.
Fu il 29 dicembre che accadde di nuovo. Nuovamente all’edicola, mentre aspettava la settima copia del giornale, perché un commercialista di Bari gli aveva ricordato che lui aveva la fissa della settima, non della quarta.
L’uomo riapparve lo scrutò e gli chiese del libro.
Mario che lo portava con sé, lo estrasse dalla tasca del cappotto di astrakan che si era comprato perché un batterista di Napoli gli aveva assicurato che avevano suonato insieme, tutti vestiti di astrakan, prima del concerto dei Rolling Stones nel 1976 e glielo diede.
L’uomo lo prese andò a pagina 27, lesse per un po’ e sorrise, di un sorriso largo e dolce che illuminò la strada.
Poi si voltò e sparì dietro ad un bus, probabilmente il 24 .
E sul retro dell’autobus Mario lesse una frase, probabilmente una pubblicità.
Diceva smettetela di farvi le seghe mentali e godetevi la vita.
E così Mario Pignagnoli da quel giorno fece.
E lui è il mio ricordo a pagina 32.
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